Recensioni film ai festival, in home video, streaming e download

Ti trovi qui:HomeCinema e dintorniFuori salaBeuys - Recensione (Festival di Berlino 2017)

Beuys - Recensione (Festival di Berlino 2017)

Nuovo lavoro documentaristico per il regista tedesco Andres Veiel. Il focus della sua analisi questa volta è Joseph Beuys e la forza sconquassante e dirompente della sua arte e delle sue idee. Sullo schermo si assiste a ciò che ha creato l'artista, ma il cinema dov'è?

La domanda è: come l'arte può raccontare l'arte o per meglio dire come il cinema può raccontare il pensiero e l'espressione artistica di uno dei maggiori artisti del Novecento?
La proposta di Andres Veiel con Beuys (in Concorso al Festival di Berlino 2017) è di spezzettare la carriera e la poetica dell'artista tedesco in diversi frammenti. Questi pezzi sono intervallati da inquadrature di immagine della pellicola nei cui fotogrammi - su cui la macchina da presa di volta in volta si sposta - sono contenuti gli eventi, le esposizioni, le provocazioni di Joseph Beuys. Tutto prende avvio dal grasso animale e dal feltro, ossia dagli elementi che hanno caratterizzato la poetica dell'artista. Questo infatti durante la Seconda Guerra Mondiale era un giovane aviatore della Luftwaffe il cui aereo fu abbattuto in Crimea. Dopo alcuni giorni trascorsi nella neve, il giovane Beuys fu curato con appunto grasso animale e feltro dai nomadi tatari. Questo segmento di vita è l'unico non mostrato nel documentario di Veiel che, però, rivive nelle parole dello stesso artista. In un filmato realizzato in occasione della grande mostra che la Solomon Guggenheim di New York nel 1979 gli dedicò, la prima interamente dedicata ad un artista tedesco, Beuys spiega l'origine delle sue opere costruite appunto con il feltro, e delle sue performance in cui utilizza il grasso. Questo è il primo nucleo analizzato dal documentario che successivamente ripercorre cronologicamente la carriera e la vita dell'artista. Ai materiali d'archivio, agli interventi televisivi, ai frammenti di interviste, alle riprese delle performance si inframmezzano le interviste condotte dal regista tedesco a personalità che hanno conosciuto Beuys, come il suo maestro d'arte all'Accademia di Dusseldorf.
In mezzo parla lo stesso artista. Con indosso il suo inconfondibile cappello a tesa larga, gilet da pescatore e jeans, Beuys viene immortalato negli studi televisivi, negli happening a urlare e dimostrare la sua idea di arte. Lo spettatore, così, comprende come questa si fondava su un nuovo rapporto con la natura, per creare un'arte senza forme precostituite, più vicine alle reali forze e pulsioni dominanti l'uomo. Ciò che proponeva Beuys era infatti lontano dai pensieri delle accademie, dai registri ed etichette proposte dai critici, dalle correnti di pensiero, dalle dittature dei consumi e dalle tecnologie. Ciò si dimostra anche nella visione dei video delle sue performance che il documentario raccoglie come The Pack, How to Explain Pictures to a Dead Hare, I Like America and America Likes Me oppure 7000 Oaks. In questa installazione eseguita a Documenta 7 del 1982 l'artista tedesco pose in un grande triangolo davanti al Museo Federiciano di Kassel 7000 pietre di basalto, ognuna delle quali era acquistabile. Il ricavato della vendita di ogni pietra servì nel corso degli anni a piantare una quercia.
Veiel, insomma, lascia che Beuys si racconti, che si dimostri e si illustri, senza commenti o interpretazioni, cercando di chiuderlo entro un documentario. L'esperimento, però, riesce a metà, perché la forza dirompente della volontà creativa dello 'sciamano dell'arte' (così era chiamato Beuys) travalica i confini dell'espressione video, esplodendo oltre lo schermo. La faccia scavata e segnata, i suoi occhi apparentemente tristi e brillanti, il suo abbigliamento e la potenza delle sue espressioni si impossessano dello spettatore che si dimentica così di osservare un documentario. Ciò è sicuramente un pregio e se visto nell'importanza della trasmissione diretta dell'arte di Beuys da lui al fruitore, è un successo per il regista. Rimane però un insuccesso se si pensa che il documentario come forma espressiva deve avere una sua struttura formale, un suo senso del narrato che si esprime oltre l'intuizione di incollare su immagini della pellicola i capitoli del documentario.

Come il cinema può, dunque, raccontare l'arte? Forse non solo esprimendone l'idea, ma anche fornendo un punto di analisi per tenerla insieme in tutte le sue direzioni, soprattutto se si tratta di un'idea dirompente come quella di Beuys.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2

  Vai alla scheda del film


Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

Lascia un commento

Assicurati di inserire (*) le informazioni necessarie ove indicato.
Codice HTML non è permesso.

Questo sito utilizza cookie per il suo funzionamento. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. Se vuoi avere maggiori informazioni, leggi la Cookies policy.