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The White Fortress - Recensione

Una storia d'amore adolescenziale come atto di ribellione contro il destino che sembra aver già tracciato la strada, in una città e in un paese ancora alle prese con i fantasmi e le macerie del recente passato: The White Fortress del regista Igor Drljaca è un atto di accusa ma anche d'amore verso Sarajevo, la sua città natale, che ha ben impressionato alla recente Berlinale nella sezione Generation

Faruk è un adolescente di Sarajevo, vive con la nonna da quando la madre, stimata pianista classica, è morta in giovane età. Sbarca il lunario aiutando lo zio rivendendo materiale di scarto e ferraglia varia, cerca di arrotondare facendo lavori loschi al servizio del criminale di quartiere; una vita insomma tutt'altro che rosea che lo mette faccia a faccia con il degrado della società e che gli fa capire che in fondo lui con quell'ambiente da delinquenti da quattro soldi che si credono grandi boss non ha nulla a che vedere, a maggior ragione quando un paio di scelte sbagliate lo portano in frizione col boss. In un centro commerciale Faruk incontra Mona, una studentessa della neo borghesia bosniaca che vive in quelle case nuove in quartieri periferici residenziali che somigliano più a dei fortini che ad abitazioni. Anche la ragazza è tutt'altro che soddisfatta della sua vita a contatto con una famiglia che ha progettato per lei l'emigrazione in Canada per andare a studiare, al punto che si vergogna di dire che il padre è un politico in cerca di fortuna alle imminenti elezioni. L'incontro è un colpo decisivo alla loro vita: cercando di ribellarsi alla divaricazione che lo stato sociale impone e soprattutto di contrastare e ribaltare il destino che sembra scritto per loro, i due ragazzi iniziano una relazione, che porta Faruk ad allontanarsi da quell'ambiente violento e gretto nel quale vede solo la sopraffazione e la miseria (l'incontro e il rapporto con la giovanissima prostituta Minela è lo specchio nel quale il ragazzo vede riflesso il marcio che percorre i settori marginali della società).
Un finale enigmatico e, per certi versi aperto, girato nei ruderi della bellissima fortezza bianca che sovrasta la città di Sarajevo, carica di un profondo senso di malinconia e di impotenza il film.
Presentato nella sezione Generation della recente Berlinale, The White Fortress del regista Igor Drljaca, bosniaco di nascita emigrato in Canada in seguito alle guerre balcaniche, è risultato uno dei lavori più apprezzati nella rassegna berlinese: impostato nella sua parte iniziale come un noir, vira ben presto verso un coming of age sui generis, al centro del quale si pongono le figure dei due giovani protagonisti che cercano di ribellarsi al destino che sembra già scritto per loro: la vita ai margini del delinquente o l'emigrazione, che sembrano le uniche due vie percorribili in una società ancora fortemente devastata dalla guerra e che stenta a ergersi a punto di riferimento per gli abitanti del paese.
Ma la pellicola è anche impregnata della tematica del rapporto del regista con la sua città: un grido di dolore, carico di sdegno per una città che era diventata uno dei nodi culturali più vivaci dell'Europa e che ora invece sembra un pachiderma ferito, ancora sventrato e incapace di ripartire, ma anche un grande atto di amore viscerale e di nostalgia dopo la partenza obbligata per salvare la pelle durante la guerra: la scena in cima alla fortezza in cui i due protagonisti citano la Golden Valley sottostante, la storia di Sarajevo, la fierezza della città e dei suoi abitanti, è certamente uno dei momenti di massima poesia dell'opera.
Il racconto, come detto, nella seconda parte si rivolge maggiormente ai due giovani protagonisti, ai loro sogni e ai loro incubi cui Drljaca riesce a dare dei connotati che portano a rendere molto labile ed appena accennato il confine tra sogno e realtà, utilizzando dei momenti che cinematograficamente sembrano rimandare al migliore Malick (quello senza la presenza angosciante della voce fuori campo, per intenderci); Faruk e Mona appartengono ad una generazione che non ha conosciuto direttamente la guerra ma che si trova però a subire le sue conseguenze, in una società spaccata in due e in una città dove fuggire al destino segnato è forse possibile solo ad un prezzo altissimo. Tutto il racconto che fa il regista appare rivolto soprattutto a raccontare una storia di amore innocente in una società che dopo svariati anni vive ancora le conseguenze di una guerra che ha distrutto il tessuto sociale e trasformato l'essenza stessa della città e che sembra guardare ai due protagonisti con disprezzo e fastidio.
Rimane l'amarezza di un finale in cui il dubbio che neppure un amore adolescenziale, totalizzante, possa imporsi nel tessuto di una società disgregata; una sconfitta, forse definitiva.

The White Fortress è opera intensa, che offre momenti di grande presa emotiva e al contempo contiene un forte messaggio civile rivolto ad una terra dove il ritorno alla normalità rimane tardivo e che si sviluppa con meccanismi pericolosi. Drljaca dirige bene un film in cui le scelte tecniche offrono grandi momenti di cinema (la citata scena finale nella fortezza, la metafora del cane che si ripete spesso, la connessione alla storia del Paese con gli inserti cinematografici della Seconda Guerra Mondiale), scrive pagine di poesia essenziali, descrivendo la vita ai margini in una sorta di elegia dei poveri  e crea due ritratti adolescenziali molto efficaci e carichi di empatia, grazie anche alla notevole prova dei due giovani attori: l’esordiente Sumeja Dardagan (Mona) e soprattutto Pavle Cemerikic (Faruk), destinato ben presto a lasciare tracce importanti nel cinema balcanico.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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