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Venezia 81: giorno 6. Cronache di cinema e molto altro

Un resoconto fatto di news, rumors, eventi, volti, chiacchiere, battute, dichiarazioni e ovviamente cinema per spiegarvi bene cosa significa vivere ogni giorno la 81a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica. Oggi parliamo di film classici, di Lav Diaz e di Vermiglio di Maura Delpero

Nelle puntate del podcast di LinkinMovies.it La Luce del Cinema dedicate alla Mostra del Cinema, ho dato grande risalto al concorso di Venezia Classici, da considerarsi, dopo diversi anni di attività, come un angolo cinematografico di scoperta, riscoperta e approfondimento sul cinema. Il doppio filone di analisi (film restaurati e documentari sul cinema) in cui si divide la selezione svolta in collaborazione con le cineteche in giro per il mondo, è stata una buona e vincente idea che permettere di avvicinare al cinema chi non lo conosce; allo stesso tempo i cinefili più consumanti possono vedere sul grande schermo capolavori del cinema internazionale che, magari, per questioni anagrafiche, non hanno mai potuto osservare in sala. Quest’oggi l’editorialino che correda la prima pagina del Ciak In Mostra, la pubblicazione quotidiana che accompagna le giornate della Mostra, parla proprio di questo. La firma è di Steve Della Casa, direttore artistico del Festival di Torino oltre che grande studioso e critico cinematografico. Il direttore nel suo scritto mette in evidenza proprio quanto ho appena detto, partendo dalla selezione in Venezia Classici del restauro in 35mm di Ecce Bombo di Nanni Moretti (per farvi un’idea sul cinema di questo autore, vi consiglio la puntata del podcast a lui dedicata). Della Casa considera la presenza di questo film, evento principale del concorso Venezia Classici, tanto quanto Sbatti il mostro in prima pagina di Bellocchio lo è stato per Cannes Classic 2024 (la medesima selezione, però, al Festival di Cannes) come un segno di cambiamento del concetto di “classico”. Scrive: «Oggi la richiesta di ridare nuova vita a film anche recenti non è da considerarsi solo il frutto di una particolare attenzione cinefila. Si tratta di qualcosa di diverso, qualcosa che sicuramente ha a che fare con la passione per il cinema ma che al tempo delinea una precisa richiesta di mercato». Il discorso iniziale quindi, si allarga e quella scoperta (o riscoperta, o approfondimento) sul cinema del passato non è più solo una primizia ad appannaggio del pubblico dei festival, ma è divenuta fruibile da tutti, dal momento che questi film giungono, magari in particolari selezioni, nei cinema cittadini.

Della Casa fa l’esempio del ciclo di Harry Potter, di Sapore di sale o Il Signore degli anelli che sono apparsi nei cartelloni nostrani più o meno questa estate. Il merito è sicuramente delle cineteche, come detto, e in particolare in Italia della Cineteca di Bologna e del Cinema Ritrovato che fa accorrere un pubblico sempre più numeroso nei suoi incontri bolognesi lungo l’estate con una selezione che propone molta storia del cinema. Della Casa conclude sottolineando come la distribuzione dei classici restaurati sia divenuta una realtà di mercato importante. A me (e a noi della redazione) preme segnalare che a parte questo dettaglio, l’azione di Venezia Classici, del Cinema Ritrovato, del Centro Sperimentale di Cinematografia come anche del Museo del Cinema di Torino, o di altre realtà italiane e internazionali, è fondamentale per permettere al messaggio del cinema di restare vivo, di non perdersi nell’oblio, come diceva ieri Walter Salles in conferenza stampa parlando di I’m Still Here. Il cinema rinasce e rinvigorisce, così, la sua proposta, al cinema, in sala per l’esattezza, in mezzo a quelle poltrone in cui è nato e si è sviluppato. 

E il cinema? Eccolo! Vengo ad oggi e vi parlo di due film. Innanzitutto Don’t Cry, Butterfly, opera prima della regista vietnamita Duong Dieu Linh nel concorso della Settimana della Critica. Tam lavora in una location per matrimoni. Un giorno scopre il tradimento del marito, silenzioso, schivo, quasi menefreghista, in diretta TV e invece di affrontarlo decide di ingaggiare una potente esperta di rituali magici per riconquistare il suo amore. La figlia di Tam, Ha, al contrario, riversa le sue frustrazioni sognando a occhi aperti un luminoso futuro all’estero. Nel frattempo, un misterioso spirito della casa, visibile soltanto alle donne, si annida in una gocciolante macchia d’umido. Il film è le due protagoniste, Tam e Ha, le cui esistenze ogni tanto si incrociano, seppur viaggino su binari paralleli. Sono solidali tra loro, infatti, ma quando la figlia decide di andare a studiare in Europa, la madre lo percepisce come un tradimento e questo scatena il misterioso essere. È buono lo spunto narrativo; è interessante anche la scelta di girare principalmente tutto il film nella casa e nel condominio dove vivono i protagonisti, rendendo così la visione incastrata tra quelle pareti, come i percorsi di vita senza apparente scampo di madre e figlia. Ciò su cui poteva lavorare meglio la regista è innanzitutto il bilanciamento tra il visionario e il drammatico che pende un po’ troppo spesso verso il fantastico, quasi horror, soprattutto nella seconda parte del film. L’altro grande problema è l’integrazione dell’elemento della tradizione, del dato popolare-magico con quello reale. Finché sullo schermo appaiono le amiche di Tam intente a consigliarle vari rituali per far riavvicinare a lei nuovamente il marito o quando si vede la presenza di sacerdotesse/sciamane che compiono rituali magici sempre con lo stesso scopo, diciamo che queste visioni non sono così dissonanti con la linea generale del film. Quando però la macchia d’umido sul soffitto prende vita e ingloba la donna e distrugge il mondo delle due protagoniste, allora il dato straordinario fa cascare la pellicola un po’ troppo nel favolistico. Lo scopo allegorico è chiaro, ma è quello visivo che non collima con il resto, perché non è adeguatamente integrato con il film. Ripeto, va bene il folklore, ma il surreale stona. Nella solita ottica di valutare Don’t Cry, Butterfly come un’opera prima, il risultato è comunque valevole perché la regista vietnamita dimostra con chiarezza e precisione che è in grado di pensare e dare un iniziale sviluppo a una storia.  

Poi ho visto Vermiglio di Maura Delpero, inserito nel Concorso-Venezia 81, uno dei pochi film su cui ho riservato una speranza che non è stata delusa. La regista, dopo aver diretto due mediometraggi e due documentari, è giunta alla sua opera seconda (l’opera prima è Maternal del 2019) che parla, come i lavori precedenti, del suo territorio d’origine, l’Alto Adige e il Trentino. Vermiglio è, infatti, un piccolo comune nel Trentino che si trova a doversi relazionare con la Seconda guerra mondiale. Nel film non è specificato l’anno di guerra, ma non è importante, perché ciò che conta è il modo in cui la vita di questa comunità, le sue tradizioni, vadano avanti, nonostante questo evento drammatico. La vicenda ruota attorno alla famiglia Graziadei, composta da otto figli oltre ai genitori; il padre è il maestro del paese e insegna a piccoli e adulti a leggere e scrivere. Hanno una mucca, alcune galline e in generale la vita, seppur sia dura, silenziosa, difficile anche a causa della tanta neve, procede dignitosamente, in stretta comunione con gli altri abitanti e con i valori cristiani. Ma arriva la guerra nelle fattezze di due soldati disertori. Uno di questi, Pietro, di origine siciliana, si innamora di Lucia, la figlia più grande del mastro con cui, poco dopo, si sposa. Successivamente avvengono degli eventi che sconvolgono la famiglia protagonista e l’intera comunità. La regia di Delpero si avvicina a queste persone non con carattere documentaristico, come potrebbe suggerire il suo passato artistico, ma con una volontà di ritrarre naturalistica, personale, quasi intima. Ci si affeziona ben presto ai personaggi, soprattutto ai bambini maschi, i figli del maestro, per la loro ingenuità, per il dialetto spiccio con cui parlano, per la loro essenza di personaggi puri con cui sono ritratti.

Lo spettatore si pone, quindi, a fianco degli uomini e delle donne del film, dediti alla vita cristiana, pervasa di laboriosità, poca attenzione alle frivolezze e agli scandali. Perciò, quando sul giornale locale si viene a sapere la vera storia del disertore Pietro e la sua misera fine, la bocca delle donne si riempie di dubbi, sentenze, accuse non dettate dall’odio, ma dalla paura per un futuro diverso da quello pensato. C’è del vero in Vermiglio, del verismo, inteso come il punto di osservazione reale per registrare le dinamiche di una comunità. La famiglia Graziadei può essere, dunque, assimilata a quella dei Malavoglia di Verga nel modo in cui la modernità, ossia la guerra, irrompe nelle loro vite con dramma, esattamente come l’Unità d’Italia sconvolge la famiglia siciliana nel romanzo verghiano. Delpero, quindi, non è distaccata, non si limita a registrare, ma restituisce il valore umano di Vermiglio, la solitudine di Lucia, la scelta di Ada, sua sorella, che combattuta sulla sua sessualità, decide di farsi suora, e quella della figlia più piccola, l’unica meritevole di proseguire gli studi anche se ciò significa allontanarsi dal paese. La vicenda è sentita come primaria dalla regista (pare che lo spunto della storia sia nato in occasione della scomparsa del padre che l’ha portata a voler raccontare il tessuto umano e sociale in cui è vissuto) e questo si trasmette in chi guarda per la semplicità della narrazione. La regista adotta, pertanto, un linguaggio cinematografico scarno ed essenziale, basato su primissimi piani, sulla ricerca di dettagli visivi e del contesto perché ciò che gli interessa è appunto l’essenza di Vermiglio. Bella prova per Delpero che dimostra una buona maturità come regista e trova nella sua terra d’origine la cifra del suo cinema. Il film dovrebbe uscire nelle sale italiane il 16 settembre. 

La voce della sala stampa. Appena finito la visione di Vermiglio sono corso nella sala conferenze stampa al Palazzo del Casinò per seguire la conferenza stampa di Phantosmia di Lav Diaz. Il film lo vedrò domani, ma volevo comunque farmi un’idea. Pochi i presenti anche perché la proiezione per la stampa del film era ancora in corso. Comunque il regista si è presentato accompagnato dal produttore Paul Soriano, e dagli attori, il sempre presente nei film di Diaz, Ronnie Lazaro, Janine Gutierrez, Hazel Orencio (anche produttrice), Paul Jake Paule e Dong Abay. Brevemente, la pellicola parla del misterioso problema olfattivo di Hilarion Zabala. Un consulente/psichiatra sospetta che si tratti di un caso persistente di fantosmia, un odore fantasma, probabilmente causato da un trauma. La cura prevede che Hilarion torni ad affrontare i più oscuri abissi della sua carriera militare. È quindi riassegnato alla remota colonia penale di Pulo, in cui deve anche fare i conti con le orribili realtà della sua situazione attuale. Diaz come sempre nei suoi film torna alla storia delle Filippine per raccontare contraddizioni e problematiche del presente. Phantosmia è ambientato, infatti, nel 1979, un anno, stando alle parole del regista, di inaudita violenza nel suo Paese, in cui l’esercito combatteva contro i comunisti, e i cattolici contro i mussulmani; le conseguenze furono sentite dagli abitanti dei villaggi le cui case furono rase al suolo. In questo contesto, il personaggio subisce un percorso di redenzione, si purifica, dopo che ha combattuto il movimento comunista con grande ferocia. La sindrome da cui prende spunto il film, infatti, è legato al trauma della guerra, è una metafora che Diaz ha utilizzato per parlare di un passato violento. La realizzazione del film è stata parecchio travagliata in quanto, racconta il regista, la troupe è stata pronta per due mesi prima di girare; poi è arrivato un dottore che ha sospeso tutto. L’attore principale, così, se n’è andato e qui è intervenuto Soriano che collabora con Lav Diaz da più di 10 anni. Lui ha letteralmente salvato il film, chiedendo Lazaro, e risolvendo i problemi di produzione pregressi. Lo stesso produttore poi ha aggiunto che il cinema filippino contemporaneo è in uno dei momenti più bassi della sua storia, ma nonostante questo lui con la sua casa di produzione cerca di produrre film non solo per il mercato, ma anche più di carattere artistico, come nel caso dei lavori di Lav Diaz. In merito, infine, alla scelta del luogo delle riprese, il regista ha affermato che il processo creativo delle sue pellicole si sviluppa anche a partire dalla scelta dell’ambiente a cui àncora la storia articolata in un determinato periodo. Soddisfacente, quindi, la presentazione di Diaz. Domani sono pronto a farmi trascinare in quell’universo senza confini che è il suo cinema. Per sapere qualcosa di più sul cinema del regista filippino, cliccate qui.

Altro ancora (più brevemente)

  • Ieri vi parlavo del pagellino dei critici italiani e internazionali sui film del Concorso-Venezia 81. I’m Still Here di Salles è schizzato al primo posto di entrambe le preferenze dimostrando che il messaggio del film ha conquistato tutti. Io ve lo dico, ma qui c’è aria di Leone d’Oro sia per la tematica scelta, sia per la tecnica registica, sia per l’interpretazione degli attori che per il consenso mediatico che il film sta riscuotendo. Sicuramente Fernanda Torres, attrice che interpreta Eunice Paiva, la protagonista della pellicola, avrà sabato nelle mani la Coppa Volpi per la Miglior interpretazione femminile. Sabato 7 settembre, vedremo se c’ho preso. Se non sapete di che film sto parlando rileggete le Cronache dal Lido: giorno 5. 
  • Leggo sul Ciak in mostra che la Tucker Film a partire dall’autunno 2024 nelle sale che vorranno, metterà a disposizione tre film di Somai Shinji a cui il Far East Film Festival ha dedicato quest’anno il suo focus (cliccate qui per leggere il nostro approfondimento sul regista). I tre film selezionati sono P.P. Rider (1983, restaurato in 2K); Typhoon Club (1985, restaurato in 4K); Moving (1993, restaurato in 4K) vincitore del Premio per il Miglior Restauro alla Mostra del Cinema 2023 riuniti in una rassegna dal titolo “Nel tifone della giovinezza”. Questo evento di ricollega a quanto dicevo a inizio di questo articolo.  
  • Oggi alla Mostra del Cinema, Ethan Hawke ha consegnato il secondo Leone d’Oro alla Carriera al regista australiano Peter Weir. Questo ieri ha tenuto una masterclass alla Match Point Arena in cui tra le altre cose ha messo in evidenza il suo rapporto con la musica nel processo creativo. Weir ha detto che crede la musica l’aspetto più importante, che c’era ancora prima che l’uomo cominciasse a fare i graffiti sulle pareti. «Ascolto la musica per entrare in una sorta di trance, soprattutto quella strumentale, in modo che il cervello non si attacchi al significato delle parole». Il regista, poi, circa alle 14 ha ricevuto il Leone d’oro a cui ha fatto seguito la visione di Master and Commander. 

Per oggi è tutto. Domani, finalmente, guardo Phantosmia di Lav Diaz.  

Crediti fotografici

Foto 1 PHOTOCALL - VERMIGLIO - Film Delegation Credits Giorgio Zucchiatti La Biennale di Venezia -Foto ASAC - 4 

Foto 3 DON’T CRY, BUTTERFLY

Foto 4 VERMIGLIO - Official still - 1

Foto 5 VERMIGLIO -Actress Martina Scrinzi- 2

Foto 6 PRESS_CONFERENCE - PHANTOSMIA -Director Lav Diaz - Credits G. Zucchiatti La Biennale di Venezia - Foto ASAC-1

Foto 7 AWARD_CERIMONY - GOLDEN LION FOR LIFETIME ACHIEVEMENT - E. Hawke and P. Weir - Credits A. Avezz - La Biennale di Venezia-Foto ASAC - 2


 
Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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