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Graves Without a Name - Recensione (Venezia 75 - Giornate degli Autori)

Ancora un lavoro sulla memoria e l’identità per il regista Rithy Panh, che torna a raccontare il genocidio del suo popolo attraverso le vicende intime della propria famiglia

Dopo lo splendido The Missing Picture (2013), il regista cambogiano Rithy Panh continua il suo viaggio drammatico nel passato recente del proprio Paese, raccontando ancora una volta con toccante lucidità il massacro perpetrato dagli Khmer Rossi durante la dittatura di Pol Pot. L’autore, sopravvissuto all’eccidio della sua famiglia, ha intrapreso un doloroso percorso di riconciliazione con la Storia, che intreccia il vissuto personale con quello di un intero popolo, attraverso un’opera continua di ricerca che ha segnato tutta la sua filmografia. Non a caso la scelta del documentario si fa ancora una volta essenziale, un mezzo con cui delineare una narrazione al contempo lucida e poetica, che astrae le sofferenze individuali a paradigma universale.
Rithy Panh sceglie di apparire in prima persona sullo schermo, perché vuole raccontare la sua lunga odissea alla ricerca dei resti dei suoi cari: la Cambogia è infatti uno sconfinato cimitero in cui sono disseminate le spoglie di migliaia e migliaia di vittime di cui non si ha più alcuna traccia, e che non possono essere identificate. Sono morti che nessuno può piangere, tombe senza nome. In molti si rivolgono a santoni e sacerdoti per provare in qualche modo ad avere un ultimo contatto con i propri defunti, nella speranza di dare loro almeno un rituale di sepoltura. Anche il regista si cimenta in questa strana esperienza: tra folklore e spiritualità, la realtà si intreccia col mondo medianico delle tradizioni cambogiane alternando dolcezza e sconforto, tragedia e spiritualità.
L’autore accompagna lo spettatore in questo personale percorso introspettivo che si fa metafora, usando la macchina da presa come uno strumento sciamanico in grado di evocare il passato con lucidità e sofferenza.

Graves Without a Name è una pellicola fatta di testimonianze potenti e dolorose, che racchiudono tutto l’orrore della follia di un regime sanguinario, ma è anche una preziosa riflessione sulla memoria e l’identità, che ancora conserva valore per chi riesce a custodirla conservandone anche un flebile ricordo.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Simone Tricarico

Pensieri sparsi di un amante della Settima Arte, che si limita a constatare come il vero Cinema sia integrale riproduzione dell’irriproducibile.

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