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Festival di Toronto: quando il troppo stroppia

Che il Festival di Toronto abbia una selezione troppo ampia, variegata e dispersiva è un dato di fatto. Un articolo apparso su ScreenDaily.com porta alla luce questo problema e ne spiega i motivi, ma subito arriva la replica ufficiale del direttore Cameron Bailey. In che modo la Mostra del Cinema di Venezia potrebbe trarne vantaggio?

"This festival is eating itself". Su queste parole pronunciate da un importante dirigente di una casa di distribuzione americana, Wendy Mitchell, giornalista di ScreenDaily, ha articolato alcuni giorni fa il suo pezzo conclusivo dopo l'esperienza al Toronto International Film Festival 2013. Già dal titolo, "Toronto is too big", si capiva l'approccio critico alla manifestazione da parte dello scritto.
Per la Mitchell, 298 film di cui 147 anteprime mondiali costituiscono un programma davvero ampio. Una tale mole di offerta di titoli è però appannaggio delle grandi produzioni americane che, attraverso un marketing battente, riescono a catalizzare l'attenzione del pubblico e degli addetti ai lavori. I film di produzioni minori, al contrario, portatori a volte di una maggiore qualità, si perdono nel mare di un calendario di proiezioni poco ordinato che propone in alcuni casi la visione contemporanea di film di uguale interesse. Questa pachidermica e confusionaria programmazione, prosegue la Mitchell, certamente non privilegia nemmeno i giornalisti e gli addetti ai lavori che non hanno la possibilità di recensire tutte le pellicole, molte delle quali si ritrovano così a non avere il giusto spazio sugli organi di informazione. Il modo in cui si articola la rassegna canadese svantaggia ulteriormente i giornalisti e il pubblico: ai primi giorni del cartellone in cui sono costretti a sforzi estremi per seguire tutte le proiezioni fanno seguito giornate in cui si avverte la mancanza di titoli di peso da seguire.
Il Festival di Toronto si sta, dunque, mangiando se stesso. La soluzione proposta da Wendy Mitchell è consigliare ai registi e ai produttori con budget esigui, quelli che praticano un cinema di qualità fuori dai canoni dei film mainstream americani, di promuoversi in altri festival.

Size affords diversity”, è stata la risposta fornita da Cameron Bailey, direttore artistico del TIFF in un articolo apparso ieri sempre su ScreenDaily.com. Bailey trasforma le accuse della Mitchell nei punti di forza della sua kermesse. Una programmazione così ampia, secondo Bailey, è un merito e un complimento e offre di certo una visione più ampia dei diversi stili cinematografici. Il direttore prosegue affermando che i Festival di Berlino, Venezia, Cannes e il Sundace presentano più di 100 lungometraggi ed è certo che il pubblico e i giornalisti non sono in grado di vederli tutti. E' d'accordo quando la Mitchell scrive che c'è bisogno di più equilibrio nella programmazione tra la prima e la seconda parte del festival, ma in risposta alla dispersione dei film con budget minori, cita le sezioni Wavelengths, Vanguard e Discovery, create appositamente per promuovere questo tipo cinema. Insomma, secondo il direttore Bailey un 'grande' Festival è anche un 'bel' Festival.

Da questa sorta di querelle quale vantaggio potrebbe trarre la Mostra del Cinema e il suo direttore Alberto Barbera? Il Festival di Toronto da un po' di tempo concorre con la Mostra come vetrina internazionale, soprattutto, per i grandi film di Hollywood. Il caso più discusso quest'anno è stato la scelta della produzione di 12 Years a Slave di Steve McQueen, regista inglese che a Venezia ha vinto e stupito con Shame, di concedere l'anteprima mondiale del suo ultimo lavoro proprio a Toronto e non alla Mostra, in quanto il film si prestava di più ad una premiere nordamericana per la tipologia di storia che racconta. Barbera non ha potuto nulla contro il marketing americano, ma è riuscito, in ogni caso, a conferire valore alla kermesse veneziana. Nell'organizzare la Mostra del 70esimo il direttore ha privilegiato, infatti, la qualità tanto osteggiata al TIFF secondo la Mitchell con una selezione coraggiosa e allo stesso tempo ha voluto proseguire nella sua scelta di scardinare la Mostra dalla bulimia cinematografica di Marco Muller per strutturare un cartellone più snello.
I vantaggi di un simile lavoro sono evidenti. I registi e le produzioni internazionali possono considerare Venezia come una vetrina di prestigio e peculiarità in cui avere il giusto risalto. Il Concorso, di riflesso, appare strutturato su criteri selettivi e fondato su una reale eterogeneità artistica e sulla costruzione di una geografia variegata di stili e produzioni del cinema in cui tutti hanno lo stesso peso. La Mostra evidenzia così la capacità del cinema di scandagliare ad ampio raggio i problemi dell'uomo, come si è evinto dal Concorso di quest'anno che ha portato alla luce i suoi problemi morali, sociali e esistenziali che oggi lo perseguitano. Anche per questa maggiore possibilità di riflessione sul valore artistico del cinema, molti giornalisti stranieri preferiscono vedere e recensire i film a Venezia, piuttosto che nel loro passaggio a Toronto. Unitamente a queste scelte, al piano di ristrutturazione delle infrastrutture promosso dalla Biennale, Barbera e i suoi selezionatori devono, però, perseverare nella loro strada. Ciò vuol dire puntare sempre di più sulla qualità più che sulla quantità e confermare la scelta di snellire il cartellone, inserendo non più di 18 film in Concorso come era stato promesso, al contrario dei 20 di quest'anno, anche andando incontro a scelte 'drastiche' per rendere la programmazione più fluida e immediatamente comprensibile.
In tutto questo può risiedere la forza della Mostra del Cinema. Il suo reale vantaggio su Toronto - che forse non è proprio quella imbattibile macchina da guerra che certi giornali italiani vanno dipingendo - e su molte altre realtà festivaliere sta nella promozione del meglio del cinema declinato in vari modi, perché Venezia non è un festival, ma una mostra d'arte cinematografica.




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