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The Hateful Eight - Recensione

The Hateful Eight - Film - Recensione - Quentin Tarantino - 2015Nella magnificenza del 70 mm Ultra Panavision, The Hateful Eight è una lettura teatrale storico-politica delle radici dell'America. Tarantino 'il giocoliere' rimescola generi e stili, riferimenti e citazioni in un'opera bellissima e dalla prodigiosa potenza visiva e tecnica

Il logo vintage e stilizzato della casa di produzione con su stampata una carrozza che corre veloce, parte L’Overture composta da Ennio Morricone, il rosso del logo lascia spazio alla distesa bianca tra le montagne del Wyoming, il piano sequenza mostra una diligenza trainata da sei cavalli che si fa strada nella neve sotto lo sguardo di un goffo Cristo in croce piegato sotto il peso della neve: ecco l’apertura, in un meraviglioso 70 mm, del nuovo lavoro di Quentin Tarantino, western puro, di quelli dal sapore antico ed epico.
Nella locanda di Minnie, una stazione di posta per diligenze lungo la strada per Red Rock, si incontrano otto personaggi - il caso li fa ritrovare lì - e nello stanzone dove trovano riparo dalla tempesta di neve il film nasce, cresce, raggiunge il climax e muore.
Raccontare la trama di The Hateful Eight è esercizio inutile oltre che dannoso: basti questo minimo accenno dettato dal fato, otto personaggi, tutti col loro carico di rancore che li rende anche odiosi, in uno spazio chiuso che il 70 mm ha il potere però di dilatare ben oltre le dimensioni geometriche.
Questa non sarà un recensione 'classica', proprio per quanto appena detto, anche perché forse come mai, il lavoro di Tarantino è questa volta una esperienza visiva che prevede un patto tacito tra chi guarda e il regista stesso ed i suoi personaggi: creare una empatia altrimenti impossibile, considerato lo spessore dei personaggi. Viceversa questa sarà un recensione che vuole in pochi punti descrivere come il cinema di Tarantino sia tutto racchiuso nelle poco più di tre ore del film lungo le quali si dipana la lunga giornata presso l’emporio di Minnie, scandita dagli immancabili capitoli di cui si compone l’opera.

Tarantino 'il giocoliere'.
Vedi l’inizio e pensi: “Beh sì, è proprio un western vero” , di quelli dal sapore antico. I grandi spazi, la frontiera, la guerra civile alle spalle, le pistole fumanti che spuntano dalle diligenze, i personaggi che con le armi in mano impongono la loro legge o che fuggono dalla legge, le voci roche, gli sputi, gli insulti, le taglie 'vivo o morto' che fanno accumulare soldi su cumuli di cadaveri. Poi si arriva alla taverna di Minnie, focolare acceso, caffè schifosi, aria densa di fumo nella quale si cerca riparo dalla tempesta e piano piano, senza quasi che te ne accorgi, si scivola lentamente ma inesorabilmente nella piece teatrale: otto personaggi quasi pirandelliani che cercano un autore che (ri)scriva le loro storie, perché ognuno di loro dice di essere qualcuno che probabilmente non è: la menzogna si fa strada e il cinema diventa teatro con i personaggi che si costruiscono strada facendo attraverso racconti disseminati di atrocità, di violenza e di odio.
E quando il Maggiore Warren sale in cattedra perché qualcosa sta succedendo tra un "Bianco Natale" suonato al piano e un caffè mortifero, ti aspetti di vedere spuntare fuori Poirot da qualche parte o il volto furbo di Agatha Christie, perché il film sta giungendo al suo apice narrativo dove tutto verrà svelato. E l’apoteosi dello splatter e della violenza, che arriva “lenta come la melassa” ma inesorabile, ci riporta al Tarantino doc, quello dove le teste saltano e gli arti vengono mozzati: ora sì, “questo è un film di Quentin Tarantino”.
Si definisce giocoliere il regista che miscela, scompone e ricompone come un malefico mago forgiatore tutto quello che il cinema ci ha regalato in tanti anni di storia. The Hateful Eight, in questo, è forse il suo risultato più riuscito, perché il suo esser giocoliere va oltre la citazione, diventa parte integrante della struttura del racconto.

I modelli di riferimento.
Come non pensare al capannone de Le iene, dove il film ci mostra la resa dei conti, quando ci troviamo all’interno della taverna di Minnie? E come non ritornare con la mente a La Cosa di John Carpenter, nella sua montante claustrofobia quando vediamo le otto canaglie muoversi come sua una scacchiera nella fumosa stanza? Pochi hanno ricordato un altro grande riferimento cinematografico, duplice addirittura, allorquando torniamo con la mente al caposaldo del wuxia Dragon Inn di King Hu: è forse questa la più limpida e sottile citazione tarantiniana di The Hateful Eight, non tanto nella sua base narrativa, quanto nello sviluppo che si basa sul gioco psicologico lento e ragionato che i protagonisti mettono in atto per capire chi hanno veramente di fronte e per concludere che nessuno può fidarsi di nessuno.
Far rivivere sullo schermo i riferimenti cinematografici, vicini o lontani, è opera che Tarantino compie con la precisione di una lama affilata, rileggendo e personalizzando quanto il Cinema ha segnato nella sua mente di appassionato maniacale.

Il Fato. Tutto in The Hateful Eight è governato beffardamente dal fato. Se le cose fossero andate come dovevano andare, nulla sarebbe successo, quegli otto balordi non si sarebbero mai incrociati lungo la strada per Red Rock . Invece il destino ha voluto radunare  tutti in quello sperduto emporio coperto di neve, tutti sconosciuti che debbono vivere una giornata sotto lo stesso tetto e che iniziano da subito a pensare come le cose potranno andare. La suspense che si forma nella storia è tutta opera del fato che ha scatenato la temibile tempesta ed ha obbligato questi otto personaggi a confrontarsi, a sfidarsi, a raggirarsi. Noi sappiamo che succederà qualcosa ma non cosa, vediamo crescere i personaggi e proviamo ad avvicinarci empaticamente a loro, quasi sempre rovinosamente respinti, e capiamo che il fato è il padrone assoluto di questa partita a scacchi che decreterà chi vive e chi muore.

Il grande cinema di Tarantino. Il lussuoso formato 70 mm Ultra Panavision, ormai praticamente in disuso, regala qualcosa che per il cinema moderno digitalizzato appare impossibile: una scena teatrale portata sullo schermo che avvolge e ti fa sentire sempre al centro della scena, grazie ad uno spettacolare gioco di piani i personaggi sono sempre sotto gli occhi di chi guarda, nulla può sfuggire allo spettatore, proprio come a teatro, dove la scena si offre nuda alla vista. Con questa scelta tecnica, fortemente voluta dal regista che, ahimè, non tutti potranno godere, il connubio tra cinema e teatro diventa perfetto, una simbiosi dove la sceneggiatura per la quasi totalità del film trasforma la storia in una colorita e drammatica rassegna di maschere umane.

Il Tarantino politico. Si disse di Bastardi senza gloria e di Django Unchained che il cinema del regista americano aveva abbracciato la visione politica con la sua personalissima e beffarda rilettura storica del nazismo e dello schiavismo. In The Hateful Eight siamo invece alla riflessione sulle radici storiche del più grande paese del mondo, radici che affondano nell’odio che nasce dallo spirito di sopravvivenza, nella violenza, nella legge del più forte imposta dalla pistola fumante, nell’odio razziale; manca solo il simpatico e beffardo ghigno del regista che ci domandi: “Vi meravigliate se l’America è diventata quello che è ?”.

The Hateful Eight non è certo un film che analizza la Storia come lo furono i due precedenti, ma di certo sa essere politico quanto se non di più perché ci presenta una spiegazione quasi antropologica che va maggiormente a fondo nell’intimo dell’uomo. E quella che è la frase che diventerà l’emblema cult di questo film (“Un nero è sicuro solo quando un bianco è disarmato”) è la lettura personale più autentica della storia secondo Quentin Tarantino.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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