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Mektoub, My Love: Canto Uno - Recensione

La storia di un gruppo di giovani di origine magrebina, ragazzi belli e impossibili e fanciulle disinibite e conturbanti alla ricerca di facili amori e avventure poco galanti

Primo capitolo di una trilogia ancora in corso d’opera, il nuovo film di Abdellatif Kechiche segna una inaspettata battuta d’arresto per un regista che soli pochi anni fa aveva vinto una Palma d’oro a Cannes.
Ambientato in piena estate nei primi anni Novanta in una imprecisata e ridente località balneare nel Sud della Francia, Mektoub, My love: Canto Uno è la storia di un gruppo di giovani di origine magrebina, ragazzi belli e impossibili e fanciulle disinibite e conturbanti alla ricerca di facili amori e avventure poco galanti, in una sfrenata e orgiastica dolce vita tra spiagge, ristoranti, discoteche, pub.
È indubbio il talento di Kechiche nel trascinare lo spettatore al centro della scena, con una fluidità e naturalezza che pochi altri registi possono vantare, grazie all’uso di una macchina da presa a mano che rende palpitante ogni dialogo e ogni situazione. Quello che questa volta non ci convince è che cotanto dispendio di padronanza del mezzo tecnico si traduce in un voyeurismo fine a se stesso, più vicino al feticismo erotico di silhouette femminili di Russ Meyer che a quella leggerezza rohmeriana a cui vorrebbe ambire. Lo sguardo dello spettatore viene calamitato da un tripudio di corpi dalla sensualità esuberante (abbondano dettagli anatomici di tette, culi e dorsi maschili scoperti), una carnalità attraverso cui Kechiche vorrebbe trasmettere un senso di libertà come espressione più profonda della vita.
Peccato che il tutto risulti vacuo e inconcludente a causa di una lunga sequela di situazioni, dialoghi e azioni che non sembrano avere una briciola di giustificazione narrativa.

Il nostro giudizio:


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