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Knight of Cups - Recensione

Dopo quasi due anni arriva sugli schermi italiani Knight of Cups di Terrence Malick: opera coerente col percorso artistico personale del regista, ma che mostra anche la sua tendenza ad uno sterile immobilismo formale e sostanziale

Presentato alla Berlinale del 2015, arriva anche in Italia la penultima opera di Terrence Malick, Knight of Cups, quarto film negli ultimi sei anni del regista americano che sembra aver trovato un ritmo più sostenuto nella scrittura dei suoi lavori, creando una sottile scia nella quale The Tree of Life, To the Wonder e appunto Knight of Cups sembrano collocarsi su una medesima ricerca di linguaggio e di tematiche.
Introdotto da una parabola in stile cristiano e suddiviso in capitoli (ognuno dei quali prende il nome da una carta dei tarocchi), Knight of Cups è la storia di uno sceneggiatore di successo di Hollywood in piena crisi personale: personaggio totalmente agli antipodi del regista, Rick vive tra feste, aperitivi in piscina, vacuità, belle donne e spiagge sull’Oceano, lusso ostentato che non lo salvano però da un profondo turbamento esistenziale nel quale si dibatte come fa il pesce nell’acqua bassa; ogni azione, ogni momento trascorso sembrano approfondire sempre più il suo disagio e la sua deriva.
La figura di Rick viene raccontata attraverso le donne della sua vita, più o meno importanti, e attraverso il rapporto difficile col fratello e col padre: in ognuno di questi segmenti narrativi che si rincorrono l’uomo sembra sprofondare inesorabilmente nell’abisso di una vita vuota e inutile. La macchina da presa lo rincorre in quel suo vagare su stesso, sballottato da una parte all’altra di Los Angeles o perso nel kitsch di Las Vegas, il continuo movimento spesso circolare intorno al protagonista sta lì a raffigurare un gorgo centripeto dal quale uscire è impossibile.
La riflessione malickiana questa volta, però, pur essendo intimamente legata ai massimi sistemi umani presenti nei due precedenti lavori, sembra un po’ meno intrisa di quel cristianesimo militante che alberga nell’intimo del regista, non a caso i richiami più religioso-filosofici sono al buddhismo. Knight of Cups è sostanzialmente una riflessione sulla deriva che la vita può prendere quando sfugge al nostro controllo e sul tormento che ne consegue. Una ciclicità, questa sì ben rappresentata da Malick, nella quale tutto si ritrova in un punto di partenza immutabile.
Proprio la ciclicità del racconto permette di comprendere come il tormento del protagonista sia qualcosa che trascenda, che supera le capacità umane: il muoversi affannoso, il dibattersi tra amori nuovi e vecchi, tra ricordi e presente, altro non sono che segni di immobilità umana che inevitabilmente porta sempre più lontano da un approdo che conduca ad una riappacificazione con se stessi.
L’opera di Malick con questo film sembra ormai però irrimediabilmente avviata su un doppio binario che diverge sempre più: da un lato la sua visione filosofica-umanistica sull’essenza della vita in ogni sua espressione, dall’altro una ricerca stilistica sempre più caratterizzata e votata ad un certo immobilismo, col reiterarsi non solo della ormai irrinunciabile voce fuori campo, diciamolo, spesso fastidiosa, ma anche attraverso immagini che tendono sempre più all’astratto (il giardino zen, l’intreccio geometrico delle strade californiane, gli assurdi fake del mondo classico occidentale presenti a Las Vegas) e costruite con un'algida iconografica eleganza. E’ proprio il persistere di questa doppia possibilità di lettura dei film di Malick che ne mina il risultato: l’impressione di assistere ad un loop stilistico che si estremizza sempre più e all’interno del quale il regista colloca le sue riflessioni è ben più che tangibile e sicuramente non giova alla riuscita del film.

Knight of Cups
, come tutti i lavori di Malick, merita a prescindere la visione ma, nonostante vada riconosciuta al regista coerenza e anche una certa passione nell’affrontare problematiche vastissime e universali, la sensazione che siamo di fronte ad un disco che comincia a suonare un po’ troppe volte, riproducendo sempre la stessa melodia, è forte e rischia di produrre delusione.
Il ruolo di Rick è ricoperto da Christian Bale con risultati buoni (non è facile cercare di non far sembrare un ebete il suo personaggio in vari frangenti), le prove migliori sono probabilmente quella di Cate Blanchett e quella di Natalie Portman nei panni, entrambe, delle donne che attraverso loro ci mostrano la vita del protagonista.




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 2.5

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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