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Il racconto dei racconti - Recensione

Opera dalle forti e bellissime tinte barocche, Il racconto dei racconti di Matteo Garrone accanto al trionfo visivo mostra più di qualche crepa nell'aspetto narrativo

E’ come visitare un immenso museo barocco ricco di dipinti e sculture il nuovo lavoro di Matteo Garrone Il racconto dei racconti, pronto a sbarcare al 68esimo Festival di Cannes, dove il regista ha già racimolato due Grand Prix, in contemporanea con l’uscita nelle sale italiane. Il regista romano già in passato aveva dimostrato una certa tendenza allo stile seicentesco grazie al suo senso per l’eccesso e per l’estrema stilizzazione, soprattutto in Reality che con questo ultimo lavoro ha un curioso legame in un incipit molto simile almeno visivamente.
Per il suo nuovo film Garrone ha preso come ispirazione uno dei testi più importanti del Seicento, autentico modello per la letteratura fiabesca delle epoche seguenti: l’opera di Giambattista Basile è infatti da più parti citata come uno dei quei cardini letterari che hanno influenzato in maniera decisa i racconti di molti autori al punto che Benedetto Croce definisce il Cunto de li Cunti dell’autore napoletano come “il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari”.
Garrone e gli altri sceneggiatori hanno quindi operato un lavoro di selezione scegliendo tre di quei cinquanta racconti che compongono l’opera di Basile e li hanno trasposti in forma cinematografica: tre favole rappresentate in un unico grande racconto senza che mai si intersechino, passando da un brano dell’uno a quello dell’altro quasi a dimostrare una continuità letteraria oltre che di luogo. Le tre storie si svolgono infatti in un tempo imprecisato in luoghi tra loro vicini: storie di re e regine che molto umanamente soffrono di vizi e virtù, di ossessioni e paure.
C’è la Regina di Selvascura che non può avere figli cui un negromante consiglia la ricetta per mettere al mondo la prole: mangiare il cuore di un drago cucinato da una vergine. L’incantesimo funziona, ma oltre alla regina anche la vergine, una serva, dà al mondo un figlio identico a quello della sovrana. I due ragazzi crescono legati da profonda amicizia e la regina pur di tenere legato morbosamente a sé il figlio è disposta a metter in gioco anche la propria vita.
C’è poi il Re di Altomonte che alleva una pulce come fosse un animale domestico rimpinzandolo di cibo fino a farlo diventare grosso come un maiale. C’è la principessa che scalpita per andare a vedere il mondo e il padre, convinto di poterla tenere con sé, mette in palio la sua mano in un concorso nel quale il vincitore sarà colui che indovina di che animale è la pelle della pulce scuoiata esposta. Sarà un orco terrificante a vincere e prendersi la giovincella.
E c’è infine il Re di Roccaforte, gaudente e dissoluto, che viene ammaliato dal canto di una donna misteriosa, una vecchia lavandaia che vive con la sorella sotto le mura del castello. Questa con stratagemmi e con tenacia riesce ad infilarsi nel letto del re senza scoprire il suo volto: pagherà a caro prezzo l’affronto, ma poi come per magia diventerà una fanciulla in fiore bellissima, scatenando così l’invidia della sorella che le tenterà tutte per cambiare la sua pelle.
Le tre storie, come detto, procedono in parallelo, ma francamente non sono certo il punto forte ed il pregio del film: l’aspetto narrativo sembra rimanere molto in disparte rispetto alla fantasmagoria visiva, al trionfo dell’eccesso e del barocco. Le favole non hanno morale né nascondono allegorie, sono il tramite per l’esaltazione di un fantasy dai colori e dalle forme ridondanti in cui è più il contorno che colpisce che la sostanza. Insomma la storia non colpisce, non lascia il segno, non crea empatia, non appassiona, tutto sembra troppo tendente ad un distacco progressivo.
Re e regine, negromanti e animali fantastici, nani, acrobati, magie e sortilegi, orchi e trovate da horror gotico: Il racconto dei racconti vive di questo trionfo visivo e visionario, affidandosi a luoghi che sembrano magici ma che invece sono reali (si va dalle Gole dell’Alcantara, al Castel del Monte e Mottola in Puglia, dal palazzo Reale di Napoli a Sovana in Toscana, dal Castello di Donnafugata in Sicilia al Castello di Roccascalegna in Abruzzo), luoghi che vogliono inchiodare il racconto fantastico a scenari da favola che aspettano solo di essere popolati.
Fotografia e costumi sono sfavillanti e la regia di Garrone è indubbiamente di classe. Rimane però la sensazione di assistere ad un lavoro che dà il meglio di sé nella potenza delle immagini e che invece tralascia la parte più squisitamente narrativa.

L’operazione non era affatto semplice: traslare sullo schermo un'epoca ed un’opera che vivono sull’eccesso e sulla fantasia. Matteo Garrone ci è riuscito pienamente nell’aspetto della ridondanza barocca, meno bene in quello più cinematografico.
Il cast è di quelli da blockbuster: Salma Hayek è la Regina che vuole il figlio, Vincent Cassel (forse il più convincente) il Re libertino, Toby Jones il Sovrano allevatore della pulce, tutti e tre spalleggiati da numerosi altri attori di livello. Peccato solo che anche loro vengano fagocitati da una magnificenza visiva che divora tutto il resto.


Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 3

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Massimo Volpe

"Ma tu sei un critico cinematografico?" "No, io metto solo nero su bianco i miei sproloqui cinematografici, per non dimenticarli".

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