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El Conde - Recensione

Pablo Larraín affronta finalmente il suo grande nemico, il male più grande della storia del suo Cile, Augusto Pinochet. Dopo averlo citato in molti dei suoi film, dopo averne valutato le conseguenze che ha prodotto sui cileni, è giunto il momento per lui di parlarne. Ma come porsi nei confronti di questo ingombrante nemico? Il punto di vista scelto dal regista è originale e la finalità è raccontarne la pericolosità

Augusto Pinochet, militare e dittatore cileno, è ancora vivo. Ha le sembianze di un vampiro e vive nascosto in una villa in rovina nella punta più meridionale del Cile in una terra fredda e desolata insieme alla moglie e al suo maggiordomo. Ha circa duecentocinquanta anni, perché la sua vita ha inizio durante la Rivoluzione francese quando da giovane scopre di essere un vampiro, ma ora da vecchio, ha deciso di smettere di bere sangue e di abbandonare il privilegio della vita eterna. Il suo grande rammarico è che il mondo lo ricordi come un ladro, per cui chiama nella sua dimora i figli che accorrono velocemente assettati di sapere di quanto consta il suo patrimonio. Questo calcolo è affidato a una giovane suora che spogliata delle sue vesti religiose, si accinge a fare i conti. Subisce, però, il fascino del vecchio dittatore vampiro il quale, rinvigorito dalla nuova relazione, riscopre in sé una nuova passione vitale. 
El Conde è una storia di fantasia scritta e narrata da Pablo Larraín e Guillermo Calderón, Premio per la sceneggiatura alla Mostra del Cinema 2023, e diretta dallo stesso regista cileno. È una farsa politica, una satira su un personaggio immortale che stando a quanto racconta la Storia (e il film) non ha mai pagato realmente per i crimini commessi. Larraín ha un conto in sospeso molto aperto con il dittatore cileno sin dai tempi di Tony Manero, passando per Post mortem, No - I giorni dell’arcobaleno, Il Club e infine Ema. In tutte queste pellicole ha tracciato, seguendo varie declinazioni, l’influenza del dittatore-mostro senza mai, però, parlamene direttamente, senza mostrarlo, metterlo di fronte alla macchina da presa. In questo 2023 a cinquant’anni dal golpe con cui il generale e il suo esercito destituirono il governo legalmente eletto di Salvador Allende, Larraín ha trovato lo spunto necessario per affrontare finalmente il suo più grande nemico, quel dittatore che ha rovinato l’intera esistenza di generazioni di cileni. Il punto di vista è senza dubbio originale. Il regista ritrae Pinochet (interpretato da Jaime Vadell) con le vesti di un vampiro, un immortale, un personaggio romanzesco che attraversa i secoli cibandosi del sangue degli altri, quindi approfittando delle esistenze altrui: pone fine alle vite, per accrescere la sua. Questo aspetto orrorifico, sembra dire il regista, è l’unico punto di osservazione corretto per coglierne la vera natura e quindi vedere il suo volto e respirarne l’odore. A ciò si associa un’altra modalità di racconto, strettamente connessa con la prima, ossia quella della satira, del personaggio quasi comico, più umano. Il generale è ritratto anziano e stanco, arreso e perdente nei confronti del mondo che gli sta attorno; prova ancora amore per sua moglie Lucia (Gloria Münchmeyer) la quale dipende da lui, perché se non esistesse Augusto, lei non potrebbe esistere. Stesso pensiero è sostenuto dal maggiordomo, Alfredo Castro, che stravede per il generale e ne rimarca la sua grandezza; allo stesso tempo, però, Pinochet è spaventato dai figli su cui non confida molto per il futuro del suo nome. Pinochet vampiro, quindi, si sta spegnendo come un essere umano. Larraín rende, così, il dittatore un umano, lo toglie dal suo trono di generale inflessibile su cui l’ha posto la Storia, per raccontarne l’uomo, o per meglio dire il suo essere vampiresco. Su questo doppio filo di rappresentazione del personaggio si articola El Conde a cui però si affianca un’altra sfumatura di interpretazione. Ritratto in questo modo farsesco, il vampiro Pinochet potrebbe risultare quasi affabile e degno di compassione per la sua crisi esistenziale; il regista cileno, quindi, interrompe subito l’empatia grazie al personaggio della suora contabile, mandata dal suo istituto religioso per capire se c’è la possibilità di avere una fetta del patrimonio del generalissimo. Carmencita (Paula Luchsinger) dialogando con i figli di Pinochet elenca tutto lo sterminato patrimonio del generale, indicandone proprietà, soldi, fondi e l’impero economico ancora in suo possesso. In questi confronti a tratti comici e surreali per l’ingenuità con cui i figli raccontano come il loro padre sia arrivato a possedere tanto, rubando e confiscando, emerge la condanna di Larraín nei confronti del personaggio storico. È questa la sua vendetta: rendere manifesto al mondo, soprattutto al Cile, che questo misero uomo, sconfitto dalla sua lunga vita è in realtà un ladro, un impunito, un uomo che non ha mai pagato per le sue colpe, ma anzi anche dopo essere stato destituito da dittatore del Cile, ha continuato ad accumulare le sue ricchezze. Il regista è, pertanto, spietato nel dimostrare questo, perché colpisce lo spettatore con dati oggettivi, con qualcosa di tangibile. In questo sta la genialità della scrittura di questo film che non propone il patetico, ma permettere di comprendere la deprecabile figura di Augusto Pinochet attraverso un linguaggio universale, i soldi. Poi non contento il regista condanna un’altra figura storica con cui il dittatore ha avuto una forte relazione diplomatica nel corso del suo regime la quale si nasconde dietro la voce narrante. Ciò che li accomuna è la loro volontà insaziabile di bere il sangue degli essere umani, di bere frullati di cuore umano per sentirsi giovani, immortali, unici nella Storia. E il personaggio della suora contabile, soprattutto per Pinochet, rappresenta esattamente questo, un’altra vittima, pura, immacolata, candida, da corrompere per la sua sudicia vita.

Per Larraín El Conde, quindi, è la chiusura, la quadratura di quel cerchio di analisi storico-cinematografica sul Cile sviluppata nella sua carriera (per approfondire la poetica del regista, ascoltate la puntata del nostro podcast, la Luce del Cinema, a lui dedicata). È arrivata nel suo cinema la condanna definitiva del grande dittatore, l’ha affrontato con la consapevolezza del giusto e di chi ha trovato il mondo per rimpicciolire la sua grandezza. Larraín usa molte armi linguistiche in questo confronto: la scrittura di una storia cruda e non empatica; la caratterizzazione sfaccettata dei suoi personaggi; la scelta del bianco e nero per raccontare una narrazione che serva da archetipo; e poi l’uso della macchina da presa che si adatta alla storia narrata, per apparire, quindi, precisa nell’individuazione dei sentimenti dei protagonisti; focalizzata sulle loro parole quando si tratta di dire lo stato delle cose; eterea e romanzesca quando vola accanto al dittatore-vampiro. El Conde è un regolamento di conti, ma è soprattutto un monito per capire che il male portato da certi individui è eterno e quindi è bene non cadere nel loro fascino.

Crediti fotografici.
El Conde, Actor Jaime Vadell (Credits Netflix)




Il nostro giudizio: Il nostro giudizio è 4

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Davide Parpinel

Del cinema in ogni sua forma d'espressione, in ogni riferimento, in ogni suo modo e tempo, in ogni relazione che intesse con le altri arti e con l'uomo. Di questo vi parlo, a questo voglio avvicinarci per comprendere appieno l'enorme e ancora attuale potere di fascinazione della settima arte.

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