L'estate di Giacomo
- Scritto da Luisa Seccamani
- Pubblicato in Film in sala
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L'esordiente Alessandro Comodin insegue, con l’occhio segugio del documentarista, momenti d’estate di un diciottenne friulano. Nella sequenza d’apertura del film, Giacomo (bravo l'interprete Zulian), di spalle, suona la batteria e l’apparecchio acustico dietro l’orecchio ci dice che è sordo, mentre in quella successiva, ove cammina con l’amica nei boschi per raggiungere un’ansa del fiume Tagliamento – luogo magico... “sembra le Maldive”, dirà lui –, lo sentiamo parlare un po’ strano, alla maniera dei sordi. E il film va via così, per pedinamento serrato. Comodin inchioda la macchina da presa alla nuca e alle spalle dei due e li guarda nel fiume, in campagna, alle feste paesane, al luna park, in bicicletta. Talvolta il tallonamento è estenuante, il cazzeggio dei dialoghi esasperato e spesso la noia sorpassa il (fisiologico) livello di guardia. Ma ci sono anche attimi felici e spiazzanti, quelli rarefatti e sospesi (nel sole, nell’acqua, nell’aria, nel tempo) ove l’estate e il fermento dell'adolescenza si fermano fondendosi – i corpi si scrutano, si ritraggono indecisi poi si cercano, tentando di vedersi dentro – e il documento si fa racconto d’immagine interiore (splendida la breve sequenza al fiume dopo la sabbia nell’occhio dell'amica: primo piano di lei e lui fuori campo che parla). Poi ci sarà un’altra amica, stessa spiaggia, stesso fiume, diversi approcci del corpo, più adulti, e non necessitava la voce off della ragazza a spiegare, a mo’ di lettera aperta, ciò che già si intuisce. Ed ora … ta-dah! Ecco che m’intrufolo nel giochetto dei rimandi della critica titolata, quello in cui chi arriva primo spara e gli altri in coro si accodano; i ‘titolati’, a cominciar dai francesi abili a coltivarsi il proprio prezzemolo, sferrano i nomi noti di Eric Rohmer, François Truffaut (più in generale la Nouvelle Vague), perfino Jean Renoir (perché la locandina dipinta ha un vago quid di papà Pierre-Auguste? Bah!). Detto che vederci tutta ‘sta roba è come spingere un vitello dentro l'oblò della lavatrice, ovvero a dir poco forzato, adesso gioco anch'io. Rilancio un Apichatpong Weerasethakul. Sì perché i momenti riusciti del film, quelli di pura levitazione, mi hanno teletrasportato sopra ‘sto regista thailandese dal nome marziano, uno che riesce a pigliare magicamente chi guarda mostrando corpi a zonzo nella foresta e quell’ipnotico venti per cento di assolata macchia friulana è stato per me la giungla di Weerasethakul.
Auguro lunga vita di futuri cine-pedinamenti al fiero sguardo del prode Comodin, magari un po' meno spartani... magari più dalla parte dello spettatore (normodotato). Che non va punito: paga e si passa parola. Quella del cinefilo stoico, che si contorce sulla poltrona della sala vuota ma resta indefesso nel posto assegnatogli, è razza in via d'estinzione.
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