Night Moves - Recensione (Venezia 70 - In concorso)
- Scritto da Davide Parpinel
- Pubblicato in Film fuori sala
- Commenta per primo!

Kelly Reichardt ha stile e un'idea chiara di fare cinema. La regista indie aveva già fatto riflettere il pubblico del Lido nel 2010 quando nel Concorso fu inserito Meek's Cutoff, storia alle origini dell'America in cui una famiglia di contadini, durante la febbre dell'oro, si affida a un losco individuo per cercare migliore fortuna. Night Moves è la naturale continuazione di questa pellicola. Il focus, in questo film, è spostato a oggi come a voler dimostrare dove è arrivata l'America speranzosa di Meek's Cutoff.
Il presente degli Stati Uniti, nell'idea della Reichardt, è di disillusione, di malessere, di provocazione. I protagonisti di Night Moves, infatti, sono tre ragazzi: Harmon (Peter Sarsgaard), Dena (Dakota Fanning) e Josh (Jesse Eisenberg). Sono stanchi dell'opulenza, del benessere della società in cui vivono che fagocita risorse e persone, rappresentata in una puntuale sintesi di pochi fotogrammi che mostrano il relax di alcune donne nelle acque del centro estetico in cui lavora Dena. Decidono, dunque, di voler abbattere questo status quo. Progettano e realizzano la distruzione di una diga idroelettrica. Il loro piano è calcolato al dettaglio. I loro volti sono tesi e concentrati, fino a quella notte di autunno in cui la loro azione si compie. Soddisfatti tornano alle loro vite, ma devono fare i conti con le conseguenze morali, personali e sociali.
La Reichardt, dicevamo, ha stile. Questo si materializza in una regia fredda, lucida, gelida, sintetica, concreta, in cui i protagonisti non parlano, ma agiscono. La regista inquadra il volto marmoreo di Eisenberg, interprete di una intensa e notevole performance, non teso, ma concentrato sull'obiettivo. Dagli occhi di Josh non traspare nessuna emozione, sia durante la realizzazione dell'atto, sia successivamente quando i sensi di colpa e i dubbi assillano il suo inconscio. La linea di continuità tra questi due stati d'animo è, appunto, il linguaggio della regista. Il suo stile, infatti, non muta, ma rimane lineare, distaccato e analitico. Il suo intento non è giudicare, ma mostrare quali possono essere le ricadute di un'azione così devastante e sconquassante.
La riflessione, dunque, nasce spontanea. Per i protagonisti era così necessaria la loro missione pur immaginando che avrebbe condotto a trascorrere una vita nella paura, nel sospetto, nell'angoscia? La Reichardt non risponde, ma fornisce una chiave di lettura: la forte fragilità e instabilità emotiva dei protagonisti. Filmando i loro volti, le loro azioni, i loro sguardi, la regista dimostra come le loro decisioni nascano dalla pancia più che dal cervello.