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Roma 2016: È qui la festa? No

Al di là dei dati trionfalistici che hanno fatto registrare numeri positivi nella partecipazione di pubblico e stampa, la realtà ci dice che la rassegna romana è la riproposizione del già visto: altro che festa internazionale, meglio chiamarla esposizione

+13% dei biglietti venduti, +18% del pubblico pagante, +6% di accrediti, +38% di copertura mediatica sulla stampa internazionale (dagli Stati Uniti fino all’Angola!), 52.500 fan su Facebook, 15.400 follower su Twitter e 9.000 su Instagram. Tutti segni 'più' per l’edizione numero 11 della Festa del Cinema di Roma, la seconda sotto la guida di Antonio Monda. Numeri da capogiro (snocciolati in una conferenza stampa finale dai toni trionfalistici ma dei quali ad oggi, a una settimana dalla conclusione della kermesse, non ci è ancora pervenuta conferma ufficiale: è normale?) che potrebbero far pensare a chi ha seguito la Festa da casa di essersi perso l’evento cinematografico dell’anno. Peccato che l’unico segno 'meno' in questa scialba edizione 2016 della Festa sia stato quello del cinema – checché ne dica certa stampa cartacea dell’ambiente romano, sempre pronta, a seconda delle convenienze, a ricamare dibattiti inesistenti fuori dalla sua ristretta cerchia di giornalisti della cronaca cinematografica travestiti da critici, come quando si parlò dell’utilità dei festival come Venezia dopo la vittoria di Lav Diaz commentata da uno dei fratelli Vanzina o da Pieraccioni, ma poco attendibile nell’attenta valutazione di quello che dovrebbe essere un complesso evento culturale come quello di Roma, per i suoi rapporti incestuosi con la macchina organizzativa.

Se per cinema intendiamo la stantia riproposizione di un modello cinematografico da ‘film per il grande pubblico’, cioè pellicole a tesi, per lo più americanofile, fatte con lo stampino, che parlano alla pancia dello spettatore più che alla sua testa, con il solito contorno di ruffianerie, pseudoautorialità, trappole emotive per un pubblico da soggiogare con l’alibi del tema nobile, allora sì, Roma è stata la festa del cinema, pur se mainstream. Non per nulla gli spettatori hanno premiato come miglior film Captain Fantastic (a proposito, aspettiamo ancora il dato sul numero di votanti: possibile che con il voto elettronico non sia ancora stato fornito?), massima espressione del grande bluff di un cinema che vuole dare risposte semplici a temi complessi.
Ma se per cinema intendiamo il piacere della scoperta, il mettere in discussione le proprie certezze di spettatori, il confronto con sguardi originali, la mescolanza tra nicchie di pubblico, la pluralità di modi di fare e intendere i film, allora no, di cinema non ne è passato molto sugli schermi della Festa.

Il nostro Massimo Volpe ha già raccontato bene i motivi che ci spingono ad esprimere tutta la nostra amarezza verso Roma 2016. Vale la pena di aggiungere che la sensazione quasi inverosimile è che l’Auditorium di Renzo Piano abbia ospitato nella sua splendida cornice la selezione-programmazione degna di un multisala (tranne rare eccezioni): rischi zero, si è puntato quasi tutto su un cinema a dimensione di spettatori della domenica, quelli che se mettono piede in una delle catene cinematografiche delle grandi città sa che troverà: Sala 1) Il film italiano che va per la maggiore, oggi quello sulla precarietà (Sole cuore amore); Sala 2) La commedia ridanciana hollywoodiana che celebra gli affetti familiari (The Hollars, Captain Fantastic); Sala 3) Il film in costume che vorrebbe esorcizzare le colpe del passato degli americani (The Birth of a Nation); Sala 4) Il thriller hollywoodiano che dovrebbe svelare chissà quali segreti, meglio se firmato da un ex grande del cinema (Snowden); Sala 5) Il biopic (Goldstone). E via discorrendo.

Ma d’altronde perché inorridire. Forse molti hanno dimenticano – o fanno finta di non sapere – che all’indomani dell’ultimo Festival del Cinema di Roma targato Marco Muller (anno 2014, bollato come mesto dai signori della carta stampata, come se prima di allora avessimo preso parte a edizioni memorabili) la kermesse capitolina stava per chiudere i battenti, salvo poi resuscitare dalle ceneri grazie all’intervento pubblico del Ministero dello Sviluppo Economico che, insieme ai pezzi grossi dell’industria del cinema (Cinecittà Luce e Anica che rappresenta produttori e distributori), decise che no, la rassegna s’ha da fare, provvedendo quindi alla sua sopravvivenza con uno stanziamento di fondi per potenziare il mercato (quell’oggetto misterioso della Business Street di cui anche quest’anno attendiamo ancora i risultati nel dettaglio…) e le iniziative del Festival, a patto che Roma rinunciasse a essere un festival e ad avere un concorso competitivo. La Festa non è nata e cresciuta sotto l’impulso di un’istituzione culturale (come la Mostra di Venezia organizzata dalla Biennale o il Torino Film Festival messo in piedi dall’Associazione Cinema Giovani e poi passato nelle mani del Museo del Cinema): questa sua anomala diversità ne ha sempre influenzato le sorti e l’ha fatta piano piano scivolare dalle ambizioni della politica ai suoi albori (Walter Veltroni) agli interessi dell’industria cinematografica nazionale di oggi. Inutile dunque meravigliarsi di una selezione ripiegata per lo più sul target della distribuzione cinematografia, con scelte scontate che pescavano dal bacino del listino dei distributori nostrani (per almeno metà dei titoli presentati nella Selezione Ufficiale), pronti ovviamente a sfruttare la vetrina di Roma per lanciare i propri prodotti in vista dell’uscita nelle sale.  

Ovviamente qualcuno dirà: “eh ma che volete, Roma è la festa del cinema popolare”. Premesso che il cinema popolare merita lo stesso rispetto tanto quanto quello d’autore se fatto come si deve, allora dovrebbero spiegarci perché mai due tra i film più belli visti come il thriller Al final del tunel di Rodrigo Grande e la commedia Goodbye Berlin di Fatih Akin, due esempi di cinema di genere di qualità in grado di soddisfare cinefili e spettatori occasionali, siano stati relegati ai margini della programmazione (con il film argentino collocato in uno slot non favorevole e il film tedesco lanciato da Alice nella Città). Se poi pensiamo alla mesta accoglienza che ha accompagnato l’anteprima mondiale di un wuxiapian degno erede della tradizione del cinema popolare per eccellenza, quello delle arti marziali, come Sword Master 3D di Derek Yee, la cui proiezione si è tenuta alla presenza della delegazione in una sala con una trentina di spettatori paganti, è chiaro che Roma è ancora molto lontana dall’essere una rassegna metropolitana dalla sana vocazione popolare: dall’essere cioè una vera celebrazione del cinema in tutte le sue forme, capace di allargare gli orizzonti del pubblico anziché di assecondarne semplicemente i gusti con film che ripropongono il già visto o eventi di dubbia necessità (Jovanotti, Elio e le storie tese, Renzo Arbore, accolti con tutti gli onori, al contrario di altre delegazioni meno ‘blasonate’, come quella del giapponese di The Long Excuse, costretta ad abbandonare l’incontro con il pubblico alla fine della proiezione dopo un’azione ‘manu militari’ degli addetti dell’Auditorium che, vista l’ora tarda, intimavano tutti a uscire per la chiusura della sala).

Alla fine sembra contare più l’idea che il contenuto. Citando il personaggio di Florence Foster Jenkins interpretato da Meryl Streep nel film di Stephen Frears, Piera Dettassis, Presidente della Fondazione Cinema che organizza la Festa, ha fatto sue le parole: “Qualcuno potrà dire che non ho cantato bene, ma nessuno potrà dire che non ho cantato”. Come a dire: l’importante è provarci, poi se i film sono belli o brutti poco male. Affermazioni che suonano preoccupanti, come il futuro della Festa.


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