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Intervista a Brillante Mendoza

  Brillante MendozaIncontro in esclusiva con il cineasta filippino, ospite dell’ottava edizione dell’Asian Film Festival di Roma. Il regista di Kinatay e Lola, entrambi proiettati alla rassegna, annuncia che tornerà presto dietro la macchina da presa, per un film sconvolgente su un gruppo terrorista islamico

L’Asian Film Festival cala il suo asso migliore. Dopo aver ospitato negli anni passati cineasti del calibro di Ann Hui, Tsai Ming-Liang e Jia Zhang-ke, la rassegna ha accolto a Roma un altro fuoriclasse della macchina da presa con gli occhi a mandorla per la sua ottava edizione: Brillante Mendoza, capofila del nuovo cinema filippino, tra gli autori maggiormente richiesti dal circuito internazionale dei festival. L’occasione è la presentazione al pubblico romano di Kinatay e Lola, i film più recenti diretti dal regista di San Fernando. Due pugni nello stomaco per come ritraggono un quadro desolante della società delle Filippine: nel primo scopriamo la corruzione morale e materiale dei giovani arruolati nelle forze di polizia, nel secondo entriamo in contatto con lo stato di indigenza della popolazione più anziana. Storie dolorose che non hanno mancato di colpire la sensibilità degli spettatori.

Il cinema di Mendoza è una versione aggiornata del neorealismo italiano: come un moderno Vittorio De Sica, il regista asiatico pone il suo sguardo al servizio della realtà, servendosi di quella è possiamo definire la più grande rivoluzione tecnologica in campo cinematografico degli ultimi anni, e cioè il digitale delle telecamere ad alta definizione, un supporto molto più sensibile della pellicola che, nelle mani giuste (vedi Jia Zhang-ke), riesce ad aumentare la percezione del mondo in cui viviamo.
Mendoza, cinquant’anni, nove film all’attivo, ha studiato Belle Arti all’Università di Manila. Il suo esordio alla regia risale al 2005, quando con una parabola omoerotica dal titolo The Masseur si impose come uno degli autori più interessanti della scena filippina. Da allora non ha più smesso di fare il giro dei festival, dove ha vinto svariati riconoscimenti (circa ventiquattro in totale), l’ultimo dei quali è stato il premio come miglior regista per Kinatay al Festival di Cannes del 2009. Di pochi giorni fa l’annuncio che la casa di distribuzione Atlantide Entertainment farà circolare in Italia quattro sue opere (oltre a The Masseur, Sligshot, Kinatay e Lola).

Abbiamo intervistato in esclusiva Mendoza poco prima che incontrasse il pubblico dell’Asian Film Festival. Ancora poco conosciuto nel Belpaese, il regista, in tenuta casual, si è concesso alle nostre domande mettendosi comodo sulla stessa poltrona su cui un anno fa Jia Zhang-ke ci concesse un’intervista.

Mendoza, lei ha mosso i primi passi nel cinema come scenografo. Come si è ritrovato dietro la macchina da presa?
Cinque anni fa un mio amico produttore mi ha contattato per chiedermi se mi sarebbe piaciuto fare un film finanziato da lui insieme ad una troupe di cui erano già stati stabiliti i membri. Mi sono detto: ‘Perché non provare’? In quel periodo non avevo molta esperienza come regista: avevo solo diretto alcuni spot pubblicitari. L’idea di girare un film, però, mi stuzzicava parecchio. D’altronde avevo sempre desiderato di fare il regista ed inoltre avevo urgente bisogno di soldi. È così che è nato The Masseur, con il quale poi ho vinto il Pardo d’oro, il maggior riconoscimento del Festival di Locarno.

Kinatay e Lola, forse i suoi due lavori più maturi, sono molto diversi nell’approccio alla realtà, pur avendo diversi punti in comune per quanto riguarda lo stile. L’uno è caratterizzato da una violenza esplicita che non risparmia nulla della brutalità della realtà filippina, l’altro è segnato da una pietas umana profonda, quasi sconosciuta al suo cinema, nei confronti di personaggi alle prese con i problemi della vita. Perché c’è questo scarto tra i due film?
Per una sorta di sfida programmatica: per me era importante riuscire a capire se sarei stato in grado di raccontare la realtà prima nei suoi aspetti più violenti e poi a livello più emozionale ed umano.

In Kinatay i protagonisti sono giovani poliziotti corrotti che si macchiano di un terribile omicidio. In Lola al centro della scena ci sono due nonne che lottano per i loro nipoti. La scelta dei personaggi dei due film fa pesare che lei abbia voluto mettere a confronto due generazioni distanti.
Sì, è vero. Lola è un po’ la continuazione ideale di Kinatay. Il mio obiettivo era quello di puntare lo sguardo su due strati rappresentativi della realtà filippina per tracciare un bilancio complessivo delle condizioni in cui versa il mio Paese. In particolare, Kinatay mette in scena come le nuove leve delle forze dell’ordine corrotte si propongano di occuparsi a modo loro della società, mentre Lola ribalta il punto di vista ed osserva come la società reagisca alle difficoltà degli anziani.

Qual è il suo processo creativo? I suoi film nascono da un’ispirazione o da un’idea?
Mi limito a trovare storie realmente accadute che possano essere raccontate in un film. Storie di ordinaria quotidianità che riguardino persone comuni e che abbiamo un alto potenziale emozionale. Per avere l’input di dirigere un film, mi basta accendere la televisione e guardare il telegiornale oppure ascoltare i racconti dei miei amici.

Come vede il presente del cinema filippino?
Non bene. Non esiste una vera e propria industria cinematografica. Le poche case di produzione hanno interesse ad investire solo in prodotti commerciali, soprattutto di genere melodrammatico, visto che il pubblico ama vedere i film d’intrattenimento. Non c’è spazio, né ci sono fondi, per i registi come me che amano fare un cinema più impegnato. L’aspetto più preoccupante è che sembra non esserci un pubblico per film come Kinatay e Lola. Questo mi fa star male.

Le sue parole lasciano intendere che è molto difficile trovare i soldi per realizzare i suoi film.
Non nascondo che faccio molta fatica a mettere su un budget. Ormai cerco sempre più spesso di autoprodurre i miei film o di farmi aiutare dalle case di produzioni europee (in primis quelle francesi). Di positivo c’è che in questo modo ho la possibilità di godere della massima libertà artistica.

Intrattiene qualche tipo di rapporto con gli altri registi di punta del nuovo cinema filippino, come ad esempio Lav Diaz e Raya Martin?
Io, Diaz e Martin siamo forse i registi più in vista del cinema filippino indipendente. Ma non c’è uno scambio di opinioni ed idee tra di noi. Sono un regista che si confronta solo con il proprio gruppo di lavoro e sono anche una persona un po’ asociale. Mi viene quindi difficile intrattenere rapporti con i miei colleghi.

Per quale motivo in patria non è molto amato?
Perché non racconto frottole. Molti mi criticano perché do un’immagine negativa delle Filippine. I politici, insieme ad una parte dei mass media, non accettano che i film non parlino con toni edificanti del Paese, ancor di più quando sanno che vengono visti all’estero.

Ha già in mente un nuovo film?

Al momento sto lavorando ad un progetto in fase di pre-produzione. Si intitolerà Capture e sarà incentrato sulla comunità musulmana presente nelle Filippine, una minoranza se pensiamo che il 90% della popolazione è di religione cattolica. Nello specifico posso dire che si tratterà di un film molto forte che parlerà delle gesta di un gruppo terroristico islamico che agisce nel Sud del Paese. Le riprese inizieranno nel gennaio del 2011.

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